martedì 7 gennaio 2014

Il debito pubblico dell'Italia 2.0

Nemmeno un anno fa il giovane rapper italiano Fabri Fibra scalò le vette delle classifiche discografiche con il geniale singolo Pronti, partenza via!. Il ritmo quasi limaccioso del brano musicale descriveva bene la vita politica italiana, perennemente pronta a iniziare una nuova fase, ma, alle soglie dello slancio, sempre frenata da perspicui ritardi e continuamente arenata nelle secche di un’interminabile congiuntura avversa. Stavolta, quello che è accaduto negli ultimi mesi, in particolare nella vita interna dei principali partiti politici, è qualcosa di più di un naturale restyling generazionale. E’ cambiata l’antropologia politica dei soggetti politici più rappresentativi; così, al di là di qualche rigurgito, sono spariti i pretesti propagandistici che hanno tenuto banco nel dibattito pubblico degli ultimi venti anni. Anche in questa circostanza, dunque, percepiamo l’acquolina in bocca di poterci riposizionare ai nastri di partenza, questa volta realmente fiduciosi che l’ennesimo «nuovo inizio» sia valido; che si possa correre e far correre un Paese da troppo tempo incomprensibilmente fermo. Insomma, c’è la ragionevole sensazione che questa volta si sia fatto davvero sul serio. Per fare un solo esempio, a proposito del Pd, Antonio Polito, commentando la vittoria di Renzi sul «Corriere della Sera», ha parlato di una trasformazione ancor più radicale della Bad Godesberg tedesca. Intanto, i nuovi protagonisti si sono gettati di gran lena e a piè pari sulle questioni ormai pietrificate del confronto civile italiano: riforme, legge elettorale, crescita e sviluppo sono i ritornelli preferiti dall’agone politico; i soliti evergreen di un jukebox rotto.
Eppure, per quanto si possa intensificare ed estendere la prassi della rottamazione, c’è una zavorra, comunque, che rimane e impedisce anche ai fuoriclasse più giovani e simpatici di giocare liberamente: il debito pubblico nazionale. Forse il segnale più incisivo di discontinuità tra la vecchia e la nuova classe dirigente, tra la desueta politica e quella cosiddetta 2.0, al di là dell’orario di convocazione del tavolo di segreteria, dovrebbe essere proprio quello di affrontare il grande tema di come governare il nostro debito. Francuccio Gesualdi nel suo ultimo libro, Le catene del debito (Feltrinelli, 2013), ha ricostruito con magistrale abilità e senso di orientamento quelli che sono i vincoli strutturali della nostra economia pubblica. Sono ormai evidenti a tutti le storture del sistema: aumenta il rigore, si contrae la spesa primaria, si crea avanzo primario eppure il Paese continua a indebitarsi perché non ha risorse a sufficienza per coprire gli interessi.


Nel 2012 gli interessi sono divenuti la terza voce di spesa pubblica, dopo previdenza e sanità, e in men che non si dica si sono divorati l’11,5% del gettito fiscale e il 5,5% del Pil. Insomma, nel frattempo che noi non governiamo il debito, è il debito che governa noi. Il passivo, d’altronde, è un meccanismo di redistribuzione delle ricchezze alla rovescia: prende a tutti per ridare a coloro che già hanno e così giù a tagliare e ridurre i servizi. Ma i creditori che vantano oltre 2000 miliardi di euro nei nostri confronti chi sono? La graduatoria è pressappoco la seguente: 40% banche estere, 24% banche italiane, 21% fondi e assicurazioni italiane, 10% famiglie italiane, 5% la Banca d’Italia. Dentro questo gran calderone, se poi si aggiungono le strategie di speculazione, gli agenti finanziari internazionali e i loro torbidi pagellini, il clima di sfiducia e tutto ciò che ne consegue, ci si accorge drammaticamente che a queste condizioni, la pesantezza del debito non succhia solamente denaro ma erode la sovranità democratica. Che fare, allora? Esiste una sorta di diritto di difesa? La comunità internazionale può dire qualcosa in proposito? Congelamento, autoriduzione, ristrutturazione, riqualificazione del debito sono soluzioni accessibili? La questione è seria e non facile, ma forse la strada meno tortuosa per avviare il discorso è dare sostegno popolare a questa priorità; interpellare la politica e fare in modo che se ne parli per individuare delle percorribili vie di uscita. Solo così il nuovo potrà essere davvero un qualcosa d’inedito.

Tommaso C.

Nessun commento:

Posta un commento

Nota. Solo i membri di questo blog possono postare un commento.