Colgo lo spunto offerto dalla never ending story tra Michele Santoro e la dirigenza RAI per riflettere ad alta voce sull’informazione in tv. Argomento quanto mai d’attualità, di fatto un vero e proprio evergreen che si ripropone in maniera seriale indipendentemente dal giornalista di turno: Luttazzi, Santoro oppure Biagi, poco importa.
Ammetto la mia colpa, prima di procedere oltre, dichiarando di non essere un appassionato fruitore dei salotti televisivi dediti all’informazione e all’approfondimento. Della televisione, mezzo di comunicazione che frequento spesso sia per ragioni di lavoro che per motivato e sincero interesse, preferisco altri generi. Confesso, inoltre, di non credere nel ‘buono’ e nel ‘cattivo’ giornalismo, in questa facile e quanto mai fuorviante dicotomia. Piuttosto credo nella ‘buona’ e nella ‘cattiva’ fede di chi il giornalismo lo fa davvero. Inoltre, cerco di ricordarmi che informare vuol dire ‘dare forma’ e che se anche esistono i fatti, sono le interpretazioni dei fatti e le ricostruzioni offerte a dare forma e sostanza al giornalismo, che sia in tv, sul web o sulla carta stampata.
Fatte queste premesse, si può facilmente osservare che da qualche tempo l’informazione in tv è diventata più ‘spettacolare’, una nuova forma di intrattenimento assai spesso violenta: non a caso si va strutturando un nuovo genere dal nome curioso di infotainment, che fonde insieme informazione e intrattenimento. Le liti, le urla, gli insulti, addirittura le botte (così come tanti silenzi colpevoli), sono sotto gli occhi di tutti e non hanno bisogno di essere commentati. Sono d’accordo con quanti, Santoro incluso, ritengono che il giornalismo in tv sia degradato (e degradante): lo spettacolo e la spettacolarizzazione, appunto, hanno preso il posto dell’argomentazione e dell’approfondimento; alla parola si sono sostituiti gli slogan (spesso aggressivi e violenti).
Mi sento però di aggiungere, come ci ricorda il Vangelo, «scagli la prima pietra, chi è senza peccato».
Vorrei inoltre ricordare che alcuni anni fa, il politologo fiorentino Giovanni Sartori in un suo celebre libro (Homo Videns, Laterza, 1997) ha fortemente sostenuto la tesi che la televisione sta distruggendo la nostra capacità critica e di giudizio affermando che, all’homo sapiens, quello in grado di riflettere, rielaborare e quindi comprendere le cose del mondo, si sta sostituendo l’homo videns: una nuova specie legata alle immagini e quindi alla superficie (e conseguentemente alla superficialità) nonché alla scarsa capacità di rielaborazione critica.
Forse la televisione, nonostante le sempre più frequenti edizioni dei telegiornali, le più o meno viste e discusse trasmissioni di approfondimento, da Annozero a Porta a Porta, passando per Report, Matrix, l’Infedele, Terra e OttoeMezzo (e tutte le altre che non ricordo o non conosco), non è il luogo più indicato per l’informazione e soprattutto per l’approfondimento. Ma per fortuna, come si sa, la televisione non è l’unico medium nel quale è presente l’informazione, né quello più influente.
Torniamo però a Santoro. Dall’alto del suo pulpito catodico, tra le molte cose dette durante la sua ultima diretta tv cercando di difendere la qualità del servizio pubblico ha affermato: «Voi [il pubblico, e cioè potenzialmente noi tutti] avete diritto a non vedere i vostri cervelli ridotti ad un’unica marmellata televisiva» riferendosi agli altri programmi e alle altre trasmissioni televisive. Grandi applausi sono seguiti a questo proclama.
Qualcosa in quella frase mi ha disturbato profondamente. Quella parola ‘diritto’ (sempre usata in maniera strumentale) mi ha offerto lo spunto per rileggere quella ‘cosa’ spesso dimenticata che è il contratto di servizio, e cioè il contratto che viene stipulato tra il Ministero dello Sviluppo Economico e la RAI. Un corposo testo dove si parla, tra le altre cose, di quelli che dovrebbero essere i principi ispiratori del giornalismo (perlomeno nel servizio pubblico) tra i quali «obiettività, completezza, imparzialità e lealtà dell’informazione» (bozza triennio 2010-2012). Tanti sono i diritti dei telespettatori sanciti in quel testo. Assente una responsabilità: la nostra, quella del pubblico. Una responsabilità esercitabile nelle forme più diverse che è il vero elemento di garanzia della libertà dell’informazione.
Così mi sono ricordato di un’altro pregiudizio, uno antico e fortemente radicato nel mondo degli intellettuali italiani. Quello di dire sempre, ad ogni costo, anche senza conoscerla, che la televisione ‘fa schifo’, e che il pubblico televisivo non è in grado di capire da solo le cose. “Se stai con me, avrai l’informazione e l’approfondimento, contro di me preparati a diventare marmellata”.
A me questa sembra violenza bella e buona. Mi sembra inoltre fazioso e poco rispettoso nei confronti del proprio pubblico (qualcuno dovrebbe ricordarsi di essere lui stesso un giornalista televisivo!)
Allora mi permetto di suggerire a quanti si sono persi tra i vari provvedimenti disciplinari, sospensioni, arbitrati interni e ricorsi al giudice ordinario, a quanti stanno ricostruendo questa vicenda passo per passo, dichiarazione dopo dichiarazione, che abbiamo un altro fondamentale diritto. Quello, banalmente, di spengere la televisione o cambiare canale. Un diritto intrinsecamente collegato a quella nostra responsabilità di telespettatori, cittadini, di donne e uomini liberi; alla faccia di chi, da una parte e dall’altra, continua a volerci dire che cosa dovremmo pensare.
F.C.