Recitano bene, politici e giornalisti, quando ci fanno credere che il conflitto che lacera la nostra società sia fra destra e sinistra. Ma non riescono a nascondere più di tanto la vera divisione nata in Italia: quella anagrafica fra una generazione di padri che si è messa al sicuro lasciando il deserto dietro di sé, e una generazione di figli che questo deserto dovrebbe attraversare. Scoprendo per di più di avere nello zaino, al posto dei viveri, tre bombe innescate: la bomba della precarietà del lavoro e del sistema previdenziale, la bomba del debito pubblico, la bomba dell’ istruzione negata. Propongo qui alcune considerazioni di ordine generale, lasciando gli approfondimenti a chi vorrà intervenire sul blog.
1) Lavoro e previdenza. Ricordate il dialogo fra il precario e il sindacalista con cui si apre il libro ‘I nullafacenti’ di Pietro Ichino? Chiede il precario: “Senti, mi spieghi perché io, laureato a pieni voti con una tesi sulla riforma della pubblica amministrazione, in questa stessa amministrazione sgobbo a tempo pieno da sei anni come co.co.co, per 800 euro al mese senza tredicesima, se mi ammalo non prendo una lira e rischio che non mi rinnovino il contratto a gennaio, mentre il Fogliazzi, che non sa scrivere una frase in italiano corretto, da vent’ anni sta a casa un giorno su due, quando viene «al lavoro» timbra il cartellino e se ne va per i fatti suoi, ogni estate si fa tre mesi di vacanza al suo paese, tra ferie e malattie connesse, anche se è sano come un pesce, e prende i suoi bravi 1200 euro tredici volte all’ anno?”. Le persone di buon senso risponderebbero ovviamente che il Fogliazzi va licenziato e sostituito con il precario. Il sindacalista argomenta invece che occorre insistere “col Governo perché i precari del settore pubblico vengano tutti stabilizzati”, ma che “per far funzionare meglio l’ amministrazione pubblica occorre ben altro che licenziare qualche fannullone”. La parola ‘licenziare’ non ricorre nel vocabolario del pubblico impiego. Gli scansafatiche mantengono il loro posto. Non solo, maturano anche una lauta pensione. I ventenni increduli possono cercare nell’ archivio del Corriere della Sera l’ articolo che Gian Antonio Stella scrisse sulle ‘baby pensioni’ il 5 luglio 1997. Leggeranno di bidelle andate in pensione a ventinove anni con il 94% dell’ ultimo stipendio. Scopriranno che nel 1973, a crisi petrolifera già esplosa, “la pensione baby per gli statali venne abbassata a 20 anni e addirittura a 14 anni, sei mesi e un giorno per le donne sposate. E tutto, anche se il Pci era d’ accordo, senza il controllo del Parlamento grazie a una delega nella quale non c’ era traccia dell’ elargizione”.
Gli effetti perniciosi di questo Bengodi purtroppo permangono e non sono modificabili, dal momento che la Corte Costituzionale ha più volte sancito che i diritti acquisiti non si toccano. I diritti, vorrei sottolineare, non i privilegi. Che sono uno schiaffo a chi oggi conduce la propria vita lavorativa all’ insegna di una totale incertezza. “Chi difende i giovani?” si chiedeva amareggiato Francesco su questo blog lo scorso anno in un articolo che andrebbe fatto imparare a memoria a chi ci governa e a chi ci amministra. Sia chiaro, nessuno vuole riproporre garanzie impossibili da mantenere. Sarebbe solo demagogia, per esempio, sostenere la necessità di un contratto a tempo indeterminato per tutti, magari anche blindato dal privilegio della non licenziabilità. Ma rispettare la dignità della persona, questo sì. Facendo in modo che la flessibilità richiesta dal moderno mercato del lavoro non diventi precarietà e impossibilità di porsi un progetto di vita.
2) Debito pubblico. Alla fine del 2009 ammontava a 1.761.191.000.000 euro (leggasi millesettecentosessantunomiliardi e centonovantuno milioni di euro), pari a 3.410.141.297.570.000 lire (tremilioniquattrocentodiecimilamiliardi di lire, abbuonando gli ‘spiccioli’). Per dirla con un numero più comprensibile: ogni italiano, anche i neonati, è gravato di un debito di 30.000 euro. E non si riesce a invertire la tendenza: dal 2008 al 2009 il saldo negativo è aumentato di 98 miliardi di euro, vale a dire 268 milioni di euro al giorno, festivi e superfestivi compresi. Un altro dato: nel 2008 il debito pubblico era pari al 105,8% del PIL; nel 2009 ha raggiunto il 115,8%. Dieci punti percentuali in più, un’ enormità. L’ inizio di questa follia risale a circa 30 anni fa. Nel 1980 infatti il debito pubblico ammontava soltanto al 56,9% del PIL. E questo nonostante si fosse in piena seconda crisi energetica internazionale. Seguirono anni oltremodo favorevoli per le economie dell’ occidente, con il prezzo del petrolio in picchiata. Tutti i paesi europei ne approfittarono per rimettere a posto i conti pubblici. Tutti tranne l’ Italia, che, inebriata dalla grandeur craxiana e dall’ illusione di diventare la quinta potenza economica del mondo, visse come una cicala. Nel 1992, anno dell’ esplosione di tangentopoli, il debito pubblico era salito al 105,2% del PIL.
3) Istruzione. Gli studi degli economisti sono concordi nel riconoscere che l’ impulso più forte alla produttività è dato dall’ istruzione e che lo sviluppo di un paese è, in larga misura, lo specchio del suo sistema di formazione della persona. Porto un esempio inusuale ma paradigmatico. I più bravi a costruire gallerie sono gli svizzeri. Ne stanno dando un’ ulteriore dimostrazione con il tunnel di base del San Gottardo, che una volta terminato sarà il più lungo del mondo. Chi visita il cantiere sotterraneo rimane stupito dall’ ordine e commenta: “vabbè, sono svizzeri”. Poi però scopre che gli addetti alla talpa meccanica con la quale viene scavata la roccia sono tutti superspecializzati e che il titolo di studio minimo degli operai è il diploma. Il commento allora diventa: “si vede che questi hanno studiato e sanno come fare”.
In Italia procediamo giulivi nella direzione opposta e smantelliamo il nostro sistema della formazione, a tutti i livelli, con un autolesionismo che è scellerato sia culturalmente che economicamente. Tullio Telmon, presidente della Società di Linguistica Italiana, ha recentemente scritto, con sintesi efficace: “la scuola è diventata un luogo di intrattenimento; l’ università, un compiacente luogo di trasmissione di nozioni elementari di base”. Per dettagli e ulteriori amarezze vi rimando ancora a un fondo di Francesco apparso su questo blog il 2 febbraio scorso con il titolo ‘Nessun aiuto agli studenti: un paese senza futuro’.
Il deserto in cui il Palazzo ha precipitato le giovani generazioni copre l’ intero giro dell’ orizzonte. Uno dei pochi ad avere fatto autocritica è stato Francesco Cossiga, che – ricorda Stella nell’ articolo prima citato – ha confessato un giorno: “In nome della carità e della solidarietà ho sbagliato. Credevo che la politica economica dello Stato dovesse ricalcare le linee della San Vincenzo. Abbiamo scambiato tutti la solidarietà con lo spreco. Il fatto è che pensavamo che i soldi non sarebbero finiti mai”. Cossiga, la quintessenza degli studi universitari applicati all’ esercizio del potere, non ha capito quello che a una massaia sarebbe apparso immediatamente chiaro. Mi sovviene quanto Licio Gelli ha detto dei nostri politici, conoscendoli bene: basterebbe comprarli per quello che valgono e rivenderli per quello che credono di valere e risaneremmo il debito pubblico dell’ Italia.
L'impossibilità di una reformatio in peius nei contratti della P.A. nega alla stessa un processo di riallineamento meritocratico delle carriere. Stesso discorso vale, in parte, anche per le aziende private. Per i giovani non c'è spazio. Si mangia tutto chi già siede al banchetto da parecchi anni.
RispondiEliminaConcordo pienamente con Silvio quando dice che i diritti acquisiti sono intoccabili, discorso diverso è da farsi per i privilegi. Quelli no. Restituiteceli, grazie.