martedì 11 agosto 2009

Il vocabolario politico


Settimane di sole, mare e vacanze. Per questo abbiamo deciso di sospendere le nostre analisi politologiche lasciando spazio ad un pezzo più leggero, divertente ed “estivo”. Si tratta di un articolo di Beppe Severgnini uscito sul Corriere della Sera nel Marzo 2006 e riportato anche nel suo stesso libro “L’Italiano. Lezioni semiserie”, 2007, Rizzoli.

In un Paese che non si vergogna più dei propri difetti, anzi li sfoggia come fossero medaglie, s'è diffusa anche quest'idea: la classe politica rappresenta perfettamente la nazione. Non credo sia così. Forse chi arriva in parlamento non è migliore, o peggiore, del resto di noi. Ma di sicuro cambia. Per cominciare, parla in modo diverso.
Prendiamo le dichiarazioni di voto sul finanziamento della missione in Iraq, ieri pomeriggio in Senato. Erano ipnotiche: non per le cose che si sono ascoltate - prevedibili, tutto sommato - ma per il linguaggio utilizzato. Noi italiani ci abbiamo fatto l'abitudine, ma uno studente straniero che avesse ascoltato gli interventi dei nostri parlamentari penserebbe d'aver sbagliato secolo.
Ho sentito, nell'ordine, i senatori D'Onofrio, Bordon, Nania, Schifani; ma, sono certo, avrebbero potuto essere altri trecento colleghi. Sapendo già cos'avrebbero detto, ho cercato di concentrarmi sul modo in cui lo dicevano. Mai dove: sempre ove. Un articolo di legge non stabilisce: delibera. E poi: ci si consenta qualche parola, quegli eventi passati attraverso la verifica sul campo, ci sono stati dei plausi da parte dello scenario mondiale, una domanda è risuonata in questi giorni.
"Una domanda è risuonata in questi giorni"?! Pensate di entrare in un bar e annunciare davanti a tutti: "Una domanda è risuonata in questi giorni!". Gli amici alzerebbero gli occhi dalla carte e direbbero: basta stravecchio, ragazzo. La politica invece può parlare così. Tutti lo considerano normale. Gli oratori e - quel che è peggio - noi ascoltatori.
Non c'è solo il vocabolario aulico e la sintassi ardita. C'è la cadenza enfatica da discorso pubblico, che ricorda quella dei vecchi comizi e delle inaugurazioni, sindaci agricoltori emozionati davanti al microfono, fazzoletti e gonfaloni, e la banda per chiudere. Possiamo chiamarla Pubblica Retorica Italiana, o Pri (lo stato catatonico del partito repubblicano ha, di fatto, liberato l'acronimo). L'avvertiamo se qualcuno ce la fa notare: se no passa, come un profumo di cucina in un androne.
Qualcuno dirà: che importa, sono solo parole! Importa invece, perché le parole consentono alla nostra classe politica di riprodursi per partenogenesi come gli imenotteri, e di nascondere quello che realmente vuol dire/fare. Nelle altre democrazie occidentali - vi assicuro - non parlano così: l'inglese del Congresso non è molto diverso dall'inglese di Coney Island; quello di Westminster somiglia a quello delle West Midlands. Populismo? Forse: ma almeno passa attraverso una lingua popolare.
Accettare che la politica parli una lingua sclerotica è sbagliato, perché segnala la nostra arrendevolezza (rassegnazione, dice qualcuno). Vuol dire tollerare, ogni sera, la ridicola sfilata di "testoline dichiaranti" nei telegiornali; e il falso sillogismo dei partiti ("Occupiamo la televisione perché rappresentiamo tutte le anime del Paese"). Lunedì sono usciti i risultati di una ricerca commissionata dalla Commissione di Vigilanza: nei Tg Rai, il 62% dello spazio è riservato alle dichiarazioni dei politici, il 28% alle notizie, il 9% ai contenuti. Sarò pedante, starò invecchiando: ma mi sembra indegno di un Paese civile.
Accettare una lingua diversa vuol dire incoraggiare la distanza tra la politica e il resto della nazione (anche i leghisti si sono adeguati: erano nervosi iconoclasti, sono paciosi prevosti). Scrive Gianni Roberti: "Sono un collega del 'Corriere Europeo' del Lussemburgo (...). Stiamo portando avanti una piccola battaglia qui al Parlamento Europeo per l'abolizione del titolo di 'onorevole'. I nostri parlamentari infatti sono i soli in tutta Europa a fregiarsene. Mi sembra, però, che sarà difficile far cessare quest'usanza. Che ne dice?"
Dico: in bocca al lupo.
L’appuntamento settimanale con le analisi de La Voce del Martedì riprenderà da martedì 8 Settembre. Buone vacanze a tutti.
La redazione

martedì 4 agosto 2009

A sinistra del PD


È passato oramai più di un anno da quando la sinistra radicale italiana ha ottenuto il suo peggiore risultato elettorale. Era il 14 aprile quando, a consultazione elettorale conclusa, si apprese che La Sinistra L’Arcobaleno (che riuniva Rifondazione comunista, i Comunisti italiani, i Verdi e gli ex-Ds di Sinistra Democratica) non aveva superato lo sbarramento del 4% e quindi sarebbe rimasta fuori dal Parlamento Italiano.

Cosa è avvenuto d’allora fino ad oggi? Molti congressi e dibattiti si sono succeduti e sono tutt’ora aperti.

La questione che desta maggiore curiosità, sia all’interno delle singole comunità politiche, di nuovo frammentate sia ad uno osservatore esterno, è quella che si pone l’interrogativo dell’esistenza o meno di uno spazio vitale alla sinistra del Pd per un progetto politico unitario. Quella che si chiede se sia ancora plausibile la ricomposizione delle forze radicali in un soggetto unitario, capace di tenere banco nel dibattito politico nazionale e locale e nelle prossime sfide elettorali. Una questione che contempla allo stesso tempo l’utilità sociale di uno schieramento di sinistra, di un nuovo partito, nel panorama politico italiano.

Anche per il solo spirito di sopravvivenza la maggior parte delle volte si risponde positivamente ad entrambe le questioni. D’altronde come può una intera comunità, se pur martoriata, rinnegare se stessa? Ma spesso si adducono a questa soluzioni ingannevoli, motivazioni precise, sulle quali poter impostare le future costituenti di sinistra.

La più classica ripone tutte le speranze e glorie venture nell’esistenza di un elettorato che stia fuori dagli schemi destra sinistra, che non vota né Pd né Pdl, che si allinea con partiti sin dalle origini non strutturati, come la Lista Di Pietro. Senz’altro quest’ultimo rappresenta in buona parte una fetta di elettori che votava i partiti radicali della sinistra (che non hanno saputo difendersi dal suo rampante populismo), che non sta nello schema bipartitico Pd-Pdl. Tuttavia se il dibattito non rompe la superficie quantitativa della riflessione sul bacino elettorale e non si immerge nel magma che dimora nell’odierna vitalità sociale, credo che la storia consegni al processo unitario a sinistra del Pd una sorte tanto pietosa quanto deludente.

Unica strada percorribile verso la “riscossa sociale” parrebbe, a questo punto, quella che inizia a domandarsi che tipo di elettorato vota le liste non allineate, chi quest’ultime rappresentano qualitativamente.

A ben guardare la lista Di Pietro e simili sono prive di base sociale (ammesso che vi sia nel paese un partito che ancora ne abbia una) che le dota di un voto strutturale, di fatti è più probabile in questi casi che alla leggerezza stessa del soggetto politico corrisponda il voto di opinione, espressione di preferenze variabili, incostanti, mutevoli, di brevissimo periodo.

È necessario partire da qui, da questa premessa, dagli aspetti sociali di questo bacino elettorale che vota queste liste, ma non solo, più in generale, dal rapporto tra rappresentanti e rappresentati.

La natura di questo elettorato, ma direi di gran parte dell’elettorato italiano, vive in logiche sociali di breve periodo, elabora aspettative usa e getta. Take away. L’individuo della formazione economico sociale contemporanea non è più disposto ad aspettare, non ammette l’attesa di risultati futuri ottenuti tramite quel Beiruf di weberiana memoria, è preda di un egoismo immanentista che punta a difendere ed accrescere le provvigioni della propria corte. È chiaro che tale tipologia di soggetto non è disposto a credere in un avvenire di uguaglianza e libertà, in qualsiasi liberazione promessa, poiché sono tutte proposte di lungo periodo, troppo lontane. Al contrario preferirà quella cultura politica che parla alla pancia, agli istinti più immediati, che la spara più grossa. In una parola: populista.

Le forze populiste di cui Di Pietro e la Lega incarnano l’epigone, interpretano quel sentimento sociale del tanto peggio tanto meglio, dell’opposizione per l’opposizione, quello dell’antipolitica che si sceglie di volta in volta chi odiare.

Evidentemente tutto questo indica una crisi della politica. Un leso rapporto tra rappresentanti e rappresentati. Ma anche un’incapacità da parte della sinistra tutta di comprendere la composizione sociale e gli assetti materiali che ne determinano l’esistenza.

Se processo unitario deve essere, le sinistre dovrebbero ripartire da questo punto, dalle profonde modificazioni sociali e dai valori che da queste derivano, ipotesi soppiantata dalla politica delle facili soluzioni e degli ipocriti intendimenti.

Giacomo