martedì 6 ottobre 2009

Il lavoro part-time: un'opportunità per aumentare l'occupazione


Negli ultimi dieci anni le istituzioni europee hanno espresso posizioni molto chiare riguardo alle strategie da adottare per rispondere alle sfide globali del XXI secolo.
L’Unione, durante il consiglio europeo tenutosi a Lisbona nel marzo del 2000, ha posto come proprio obiettivo strategico quello di “diventare l’economia basata sulla conoscenza più competitiva e dinamica del mondo, in grado di realizzare una crescita economica sostenibile con nuovi e migliori posti di lavoro e una maggior coesione sociale” e un ruolo cruciale all’interno di questa strategia è affidato sicuramente alla riorganizzazione del lavoro in chiave moderna e allo sviluppo di nuove politiche del lavoro.
Infatti, se tra gli obiettivi fissati dalla Commissione da raggiungere entro il 2010 compaiono, tra gli altri, un tasso di occupazione totale del 70% e un tasso di occupazione femminile del 60% rimane difficile immaginare di ottenere questi risultati senza rinnovare la concezione classica del lavoro dipendente. L’Italia, come è facile immaginarsi, è ancora molto lontana dal raggiungimento di questi obiettivi e la crisi dell’ultimo anno ha complicato ancor di più la situazione.
L’Europa comunque la strada l’ha indicata e si chiama flexicurity: un mix vincente di flessibilità (del lavoro) e sicurezza (del posto di lavoro).
Quando si parla di flessibilità occorre però chiarirne il concetto che può essere declinato almeno lungo tre dimensioni tra loro molto diverse:
per flessibilità esterna, si intende infatti la facilità per un’impresa di assumere e di licenziare i propri lavoratori;
con flessibilità interna si intende invece la facilità di modificare la quantità di lavoro impiegata nell’impresa senza ricorso ad assunzioni o licenziamenti ma tramite, ad esempio, la variazione dell’orario lavorativo o il ricorso a part-time e straordinari;
infine, con il termine flessibilità funzionale, si intende la possibilità per le imprese di spostare i lavoratori da una mansione all’altra (prevede formazione ma non incide, ad esempio, sulla precarietà dei lavoratori);
La nozione di flessibilità, quindi, non rappresenta obbligatoriamente un “costo” per i lavoratori. Non significa obbligatoriamente libertà di licenziare!
Le richieste di flessibilità, infatti, possono essere anche soddisfatte internamente all’azienda e questa “flessibilità interna” può avere caratteristiche qualitative o quantitative.
Forme quantitative di flessibilità interna si riferiscono a diversi tipi di contratti dell’orario di lavoro, come l’uso dello straordinario, del part-time, del lavoro nel fine settimana, o l’implementazione di schemi di orario di lavoro flessibile.
Forme qualitative di flessibilità interna si riferiscono all’adozione di metodi di organizzazione del lavoro che accrescano l’adattabilità al cambiamento compreso politiche come, ad esempio, la rotazione del lavoratori (programmi di job rotation).
Il part-time, ad esempio, può essere uno strumento agile e flessibile per il raggiungimento degli obiettivi fissati otto anni fa in Portogallo, garantendo un contributo importante all’aumento della partecipazione al lavoro e dell’occupazione dei giovani e delle donne. Il lavoro a tempo parziale può infatti aumentare l’occupazione senza accrescere la precarietà e può essere vantaggioso anche per le imprese, in termini di redditività e maggior formazione della propria forza lavoro.
Attraverso queste poche pagine osserveremo come il lavoro a tempo parziale possa rappresentare una delle risposte alle sfide lanciate a Lisbona dando un sostegno e un contributo importante specialmente sotto tre aspetti:
• Incentivo all’occupazione, in particolare quella femminile, perché riesce a garantire la conciliazione tra lavoro e vita familiare, ma più in generale può essere un sostegno all’incremento dell’occupazione per quelle fasce di lavoratori ritenute più deboli: giovani (per conciliare studi e lavoro) e anziani (per sfruttare alcuni interessanti programmi di pensionamento part-time).
• Incentivo al Life long learning, permettendo di abbinare lavoro e formazione lungo una parte della vita lavorativa, aspetto che dovrebbe interessare soprattutto quelle imprese che puntano alla qualità del lavoro e credono nelle potenzialità dell’innovazione;
• Attenuazione dell’effetto di esclusione sociale che si accompagna ad uno stato di disoccupazione.
Ma quanto piace il part-time alle imprese?
È ampiamente dimostrato che in sei ore di lavoro si è proporzionalmente più produttivi che in otto; ed anche che il part-time diminuisce sensibilmente l’assenteismo (soprattutto femminile) e permette con più facilità di partecipare a programmi di formazione e aggiornamento. Ma se guardiamo le statistiche di un paese come l’Italia sembra proprio che la maggior parte delle imprese, specialmente quelle organizzate sulle classiche otto ore giornaliere, non nutra una grande simpatia verso questo istituto perché evidentemente non soddisfa le loro esigenze organizzative, ed anzi produce, laddove adottato, complicazioni maggiori: gestire un ufficio con due addetti a part-time è di massima meno efficiente che affidarlo ad un unico addetto a tempo pieno. Ciò, fatte salve quelle situazioni nelle quali il part-time rappresenta una via di fuga per ridurre i costi e magari per evitare licenziamenti.
In quei settori invece (ristorazione, distribuzione commerciale e agricoltura) dove il part-time è più attraente (e quindi più utilizzato) l’esigenza è spesso quella di poter “aggiustare” la lunghezza dell’orario in base ai flussi di attività.
Nonostante questo però altri dati ci rivelano che queste posizioni, specialmente se supportate da incentivi mirati, possono essere quantomeno riviste. Esistono esempi virtuosi, non solo negli altri paesi (in Olanda quasi una persona su due ha un lavoro part-time) ma anche in Italia.
In realtà i fattori che impediscono al part-time di diventare uno strumento di crescita occupazionale del nostro paese sembrano operare sia dal lato dell'offerta che della domanda di lavoro. Manca insomma qualcosa, sia alle aziende che ai lavoratori, per poter sfruttare al meglio le potenzialità di questo strumento.
Per i lavoratori, infatti, è vero che il part-time può essere una grossa opportunità ma ha anche dei “costi”, come la riduzione del reddito e le pochissime possibilità di carriera che questo in molti casi comporta. Persone con un reddito basso (e la media delle retribuzioni italiane è tra le più basse d’Europa) a volte non possono permettersi il lusso di ridurre il proprio orario di lavoro. Il lavoro a tempo parziale dovrebbe poter essere una libera scelta in alcune fasi del ciclo di vita (come in Danimarca e Olanda) ma si tratta spesso di una scelta obbligata, soprattutto per quanto riguarda le donne: per la scarsa offerta di servizi di assistenza e di cura e una divisione del lavoro all’interno della famiglia che le vede tuttora dedicarsi principalmente alle attività familiari. Inoltre sembra sia particolarmente difficile, per i part-timers, poter tornare ad un lavoro a tempo pieno.
Per quanto riguarda le imprese invece, la riforma del mercato del lavoro (legge 30/2003) ha modificato le convenienze economiche dell’istituto del part-time, rendendolo in alcuni casi più conveniente, anche grazie alla maggior produttività rispetto al tempo pieno. Ma questa convenienza può essere ridotta dalle esigenze organizzative e gestionali che il lavoro part-time comporta, soprattutto nella piccola impresa, che rappresenta larga parte del sistema produttivo italiano.
Per aumentare i benefici e ridurre i costi del part-time, per le imprese e per i lavoratori, sarebbe quindi necessario prevedere anche azioni che favoriscano un uso flessibile degli orari di lavoro in relazione alle diverse esigenze che emergono nel corso della vita lavorativa di ciascun individuo. Ad esempio facilitando i passaggi da full-time a part-time e viceversa, favorendo l'utilizzo di congedi parentali e formativi flessibili, facilitando l'investimento formativo e la progressione professionale.
Si potrebbero inoltre considerare interventi a sostegno della creazione di posti di lavoro part-time mirati a fasce specifiche di individui (donne e uomini con carichi familiari, disabili, anziani, giovani in obbligo formativo). E un sostegno alle piccole imprese potrebbe anche arrivare attraverso l'offerta di assistenza all'introduzione del part-time nei vari contesti organizzativi e una maggiore informazione sulle opportunità normative.
È quindi una questione di incentivi (alle aziende) e opportunità (per i lavoratori). Di best practices, in Europa, non ne mancano.
E probabilmente, questi buoni esempi, sarebbe opportuno seguirli, perché il lavoro part-time rimane uno degli strumenti di flessibilità più virtuosi per favorire inclusione sociale e per la creazione di posti di lavoro di qualità e nel quale, probabilmente, varrebbe la pena investire più risorse per provare a raggiungere quegli ambiziosi obiettivi fissati a Lisbona.

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