mercoledì 20 novembre 2013

Si spacca il PDL. E allora?

Ho sempre pensato (e scritto) che le vicissitudini vissute dai partiti nazionali dovessero avere delle naturali conseguenze anche alle loro propaggini che operano a livello locale. Questo ritenendo che dietro quei nomi, quelle sigle e quei simboli non ci fossero (o meglio, non ci dovessero essere) solo dei cartelli elettorali ma risiedessero storie, passioni, idee, ideali, progetti, visioni di mondo.
Allo stesso tempo però, con l’avvento di partiti-personali sempre più piegati a necessità particolari (dei singoli) che a quelle generali (della collettività), questo carattere di partito sembra proprio esser venuto meno. 
Succede allora che grandi partiti si spacchino su posizioni talmente specifiche che diventa difficile tradurne il senso delle conseguenze che potrebbe avere a livello locale.
Provo a spiegarmi meglio: Il PDL si è spaccato trasformandosi nel ritorno di Forza Italia e nella nascita del gruppo Nuovo Centrodestra senza avere alcuna divergenza "di sostanza". La scissione è frutto di due posizioni diverse su un caso specifico: la decadenza di Berlusconi legata o non legata alla sopravvivenza del governo accompagnata, ovviamente, da qualche guerra di posizionamento (personale, ci mancherebbe altro!) tra falchi e colombe. Tutto quì.
Che succede o dovrebbe succedere ai partiti PDL locali? Che devono fare? Su che basi si dovrebbero spaccare? Su quali rimanere compatti? 
Entrambi i partiti, non a caso, intenderanno coprire in futuro lo stesso spazio politico, quello del centro-destra.
E allora, dico io, può tutto questo avere delle conseguenze politiche a livello locale? E allo stesso tempo, può la spaccatura del più grande partito del centro destra NON avere alcuna conseguenza a livello locale?
In buona sostanza, possono i partiti politici essersi ridotti ad essere solamente contenitori di opportunità?
Francesco N.

2 commenti:

  1. «Ormai il Pd, sia nella classe dirigente che si perpetua da un ventennio sia nel nuovismo di Renzi, ha la stella polare più vicino al mondo della finanza che non a quello dei lavoratori. La sinistra moderna, non soltanto per la fusione con gli ex democristiani, ha cambiato visione di società mettendo in soffitta le prospettive del socialismo europeo e anche quelle keynesiane: per sommi capi possiamo ricordare che ha privatizzato reti strategiche nazionali, aperto al precariato con la legge Treu, ha appoggiato guerre della Nato, non si è prodigata per estendere i diritti civili, ha finanziato le scuole private invece di rilanciare l’istruzione pubblica e riportare la cultura (senza scomodare l’egemonia di gramsciana memoria) al centro dell’azione politica, infine si è allineata alla “dottrina” dell’austerity imposta dall’Europa dei tecnocrati»

    Ferruccio Pinotti e Stefano Santachiara,

    I panni sporchi della sinistra, Chiarelettere

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  2. Tolgo il punto interrogativo dalla domanda finale di Francesco: i partiti politici si sono ridotti a ‘contenitori di opportunità’, un eufemismo per dire ‘carrierifici’, ‘uffici di collocamento’, ‘centri di potere’.
    Chiedo a mia volta: poteva essere diversamente in un Paese che, secondo un’ indagine resa nota in questi giorni dal Club dell' Economia e dal Censis, “conviene ai politici, ai sindacalisti e alla finanza globale” e “non ha nulla da dare a giovani, precari, disoccupati e laureati” (Repubblica.it, 19.11.2013)?
    Berlusconi prima e Grillo poi hanno mostrato, con i loro reclutamenti di massa, che cultura e merito non servono. Basta salire sul carro giusto al momento giusto e l’ ingresso nei vari paesi dei balocchi è assicurato. Nel Pd si sono organizzati di conseguenza: sanno che Renzi è il panzer e che stando dietro a lui si sfonda, il resto non conta.
    Negli ultimi venti anni abbiamo visto democristiani e cristiani impegnati in politica genuflettersi e adorare un vitello d’ oro. Oggi molti ex comunisti si apprestano a fare di peggio, prostrandosi davanti a un vitellino di latta.
    Silvio Cazzante

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