Nemmeno
un anno fa il giovane rapper italiano Fabri Fibra scalò le vette delle
classifiche discografiche con il geniale singolo Pronti, partenza via!. Il ritmo quasi limaccioso del brano musicale
descriveva bene la vita politica italiana, perennemente pronta a iniziare una
nuova fase, ma, alle soglie dello slancio, sempre frenata da perspicui ritardi
e continuamente arenata nelle secche di un’interminabile congiuntura avversa. Stavolta,
quello che è accaduto negli ultimi mesi, in particolare nella vita interna dei principali
partiti politici, è qualcosa di più di un naturale restyling generazionale. E’
cambiata l’antropologia politica dei soggetti politici più rappresentativi; così,
al di là di qualche rigurgito, sono spariti i pretesti propagandistici che hanno
tenuto banco nel dibattito pubblico degli ultimi venti anni. Anche in questa
circostanza, dunque, percepiamo l’acquolina in bocca di poterci riposizionare
ai nastri di partenza, questa volta realmente fiduciosi che l’ennesimo «nuovo
inizio» sia valido; che si possa correre e far correre un Paese da troppo tempo
incomprensibilmente fermo. Insomma, c’è la ragionevole sensazione che questa
volta si sia fatto davvero sul serio. Per fare un solo esempio, a proposito del
Pd, Antonio Polito, commentando la vittoria di Renzi sul «Corriere della Sera»,
ha parlato di una trasformazione ancor più radicale della Bad Godesberg tedesca. Intanto, i nuovi protagonisti si sono
gettati di gran lena e a piè pari sulle questioni ormai pietrificate del
confronto civile italiano: riforme, legge elettorale, crescita e sviluppo sono
i ritornelli preferiti dall’agone politico; i soliti evergreen di un jukebox
rotto.
Eppure, per quanto si possa intensificare ed estendere
la prassi della rottamazione, c’è una zavorra, comunque, che rimane e impedisce
anche ai fuoriclasse più giovani e simpatici di giocare liberamente: il debito
pubblico nazionale. Forse il segnale più incisivo di discontinuità tra la
vecchia e la nuova classe dirigente, tra la desueta politica e quella cosiddetta
2.0, al di là dell’orario di convocazione del tavolo di segreteria, dovrebbe
essere proprio quello di affrontare il grande tema di come governare il nostro
debito. Francuccio Gesualdi nel suo ultimo libro, Le catene del debito (Feltrinelli, 2013), ha ricostruito con
magistrale abilità e senso di orientamento quelli che sono i vincoli
strutturali della nostra economia pubblica. Sono ormai evidenti a tutti le
storture del sistema: aumenta il rigore, si contrae la spesa primaria, si crea
avanzo primario eppure il Paese continua a indebitarsi perché non ha risorse a
sufficienza per coprire gli interessi.
Nel
2012 gli interessi sono divenuti la terza voce di spesa pubblica, dopo
previdenza e sanità, e in men che non si dica si sono divorati l’11,5% del
gettito fiscale e il 5,5% del Pil. Insomma, nel frattempo che noi non
governiamo il debito, è il debito che governa noi. Il passivo, d’altronde, è un
meccanismo di redistribuzione delle ricchezze alla rovescia: prende a tutti per
ridare a coloro che già hanno e così giù a tagliare e ridurre i servizi. Ma i
creditori che vantano oltre 2000 miliardi di euro nei nostri confronti chi
sono? La graduatoria è pressappoco la seguente: 40% banche estere, 24% banche
italiane, 21% fondi e assicurazioni italiane, 10% famiglie italiane, 5% la
Banca d’Italia. Dentro questo gran calderone, se poi si aggiungono le strategie
di speculazione, gli agenti finanziari internazionali e i loro torbidi pagellini,
il clima di sfiducia e tutto ciò che ne consegue, ci si accorge drammaticamente
che a queste condizioni, la pesantezza del debito non succhia solamente denaro
ma erode la sovranità democratica. Che fare, allora? Esiste una sorta di
diritto di difesa? La comunità internazionale può dire qualcosa in proposito? Congelamento,
autoriduzione, ristrutturazione, riqualificazione del debito sono soluzioni
accessibili? La questione è seria e non facile, ma forse la strada meno
tortuosa per avviare il discorso è dare sostegno popolare a questa priorità; interpellare
la politica e fare in modo che se ne parli per individuare delle percorribili
vie di uscita. Solo così il nuovo potrà essere davvero un qualcosa d’inedito.
Tommaso C.
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