martedì 28 febbraio 2012

Mercato del lavoro: negoziato difficile tra flessibilità in entrata, libertà di licenziamento e nuovi ammortizzatori sociali.

Il negoziato sulla riforma del mercato del lavoro è ormai entrato nel vivo ed entro Marzo il governo dovrebbe licenziare un provvedimento atteso da molti anni. I sindacati hanno più volte sottolineato che la trattativa è partita a tutti gli effetti e in questi ultimi giorni lo stesso negoziato sembra essere entrato in una fase di stallo. Le critiche da parte sindacale (ma anche da Confindustria) non sono mancate, ma il governo è deciso ad andare avanti sulla disciplina dei licenziamenti e sulla riforma degli ammortizzatori sociali e quindi i nodi più importanti da sciogliere per arrivare ad un accordo saranno questi.

MENO FORME CONTRATTUALI MA PIU' LIBERTA' DI LICENZIAMENTO
Su un punto sembrano tutti d'accordo: la riduzione delle forme contrattuali oggi previste. Il ministro Fornero infatti ha più volte reso chiara la sua volontà di disboscare l'attuale giungla contrattuale e di incidere dunque sulla flessibilità in entrata e dare più stabilità ai posti di lavoro. Questa intenzione tuttavia, fa il paio con le ripetute posizioni sui licenziamenti. Sin dall'inizio della trattativa le dichiarazioni di diversi ministri e dello stesso Monti, hanno troppe volte posto l'accento anche sulla flessibilità in uscita e sulla disciplina del licenziamento. Il governo quindi pare voler dire: “riduciamo le forme contrattuali e gli abusi per facilitare assunzioni più stabili (vedi finte partite iva e co.co.pro,...) ma bisogna concedere qualcosa sulla libertà di licenziamento”.
Di fatto si punta a facilitare maggiormente il licenziamento di tipo economico, in linea con ciò che ci viene chiesto sempre più frequentemente dalle istituzioni europee e dai c.d. mercati. Lo stesso entusiasmo di Monti per la riforma varata in Spagna dal nuovo governo Rajoi ne è una conferma. Si vuole intervenire sia sui licenziamenti collettivi che su quelli individuali. Per quanto riguarda i licenziamenti collettivi le attuali norme e la loro applicazione giurisprudenziale in materia, permettono già oggi alle aziende di poter ridurre personale, basta che ci sia una comprovata difficoltà economica e un percorso di consultazione sindacale. Il problema, una volta accertato l'esubero di personale, è quello della scelta dei lavoratori da licenziare da individuare in sede di consultazione sindacale. Il governo proporrà sicuramente di fissare per legge criteri di scelta di tipo economico e tecnico-produttivi limitando quelli di natura sociale come i carichi di famiglia o l'anzianità. In questa prospettiva il ruolo del sindacato verrà sicuramente limitato a favore di una maggiore libertà economica delle imprese. Sui licenziamenti individuali si tratta invece di capire se per ritenere un licenziamento legittimo, basti dimostrare la scarsa produttività o redditività di un singolo lavoratore. Probabilmente si cercherà di specificare maggiormente i casi e gli indici che giustificano un licenziamento, limitando quindi anche il potere della magistratura del lavoro che attualmente può valutare se una scarsa produttività individuale giustifichi o meno un licenziamento secondo una sua valutazione discrezionale. Questo è certamente un tema delicato perché dietro questi nuovi indici potrebbero nascondersi licenziamenti al limite della legittimità. Si pensi ad esempio ai lavoratori con gravi problemi di salute o che si ammalano più degli altri, alle donne che hanno carichi di famiglia o ai lavoratori più combattivi che scioperano maggiormente. Su questi due punti, parti sociali e governo, potrebbero spaccarsi facilmente, poiché il tema può incidere non solo sulla dignità del lavoro, ma anche sul ruolo del sindacato e della contrattazione collettiva nella gestione delle crisi aziendali.

IL NODO DEGLI AMMORTIZZATORI SOCIALI
Altro tema su cui il negoziato si è già bloccato è quello della riforma degli ammortizzatori sociali.
Il governo ne propone infatti una riforma radicale per proteggere i lavoratori che oggi lo sono meno. Ma ha più volte dichiarato che questa riforma verrà fatta a costo zero, perché si sa, le risorse sono scarse e il pareggio di bilancio incombe su tutti noi. Propone quindi di eliminare la cassa integrazione straordinaria (CIGS), quella cioè che viene richiesta delle aziende in crisi strutturale e duratura, mantenere la cassa integrazione ordinaria (CIGO) per crisi temporanee e costruire gradualmente un sistema di disoccupazione universale per tutti. Punta dunque ad ampliare la platea dei beneficiari ma senza risorse aggiuntive. Eliminare la CIGS e puntare tutto sui sussidi di disoccupazione, vuol dire anche in questo caso facilitare i licenziamenti, visto che un lavoratore in cassa integrazione non è licenziato dall'azienda ma solo sospeso in attesa della ristrutturazione o di una riconversione dell'impresa in crisi. Certo, spesso la CIGS è stata utilizzata solo per dare speranze ai lavoratori di riprendere la propria attività che poi non si sono tradotte in nuovi progetti industriali e tutto ciò con un dispendio esagerato di risorse pubbliche. Ma ciò è accaduto e accade perché in Italia la politica industriale non si è mai fatta sul serio. Questa è molto carente o addirittura assente anche nei settori maggiormente in crisi. E' chiaro che la CIGS senza una politica industriale adeguata crea inefficienze e sprechi, ma quello che il mondo del lavoro, compreso il sindacato, chiede da anni è proprio di potenziare gli strumenti di attivazione e attuazione di politiche industriali, soprattutto in un momento di crisi economica. Non si capisce perché per estendere le tutele anche a settori e lavoratori che per anni sono stati vergognosamente esclusi, bisogna eliminare strumenti di tutela ideati per dare continuità di reddito e strumenti per attivare interventi di politica economica. Il punto dunque è quello delle risorse che il governo metterà sul tavolo e soprattutto quanto sarà la quota a carico della fiscalità generale per garantire ai lavoratori contributi figurativi in caso di disoccupazione. Sia i sindacati che Confindustria hanno fatto sapere che se si vuole estendere le tutele, non si può intervenire solo operando una redistribuzione senza un investimento ulteriore. Vorrei far notare che con la durissima riforma delle pensioni ci è stato detto che le risorse risparmiate sarebbero state investite per dare più protezioni ai giovani e ai precari. E allora perché non investire quei risparmi per estendere sussidi di disoccupazione a chi oggi non ne ha (co.co.pro, apprendisti, occasionali,...) e costruire gradualmente un sistema universale di sostegno al reddito, senza per forza eliminare la CIGS?
Le divisioni sono molte e già giovedì i sindacati hanno fatto sapere che sugli ammortizzatori sociali non sono disposti ad assistere ad ulteriori tagli, mentre il governo ha parlato di un'attuazione graduale. Anche sui licenziamenti le posizioni non sono facili da mitigare e sarà difficile individuare nello specifico come una minore flessibilità in entrata possa essere compensata con maggiore flessibilità in uscita.
Andrea D.M.

mercoledì 22 febbraio 2012

UNA MIGLIORE OPPOSIZIONE

Per amministrare bene occorrono competenza, impegno e tempo.
Per fare una buona opposizione occorrono altrettanta competenza, altrettanto impegno, ma molto più tempo. Chi siede sui banchi di minoranza sconta infatti tre handicap fisiologici: l’ inferiorità numerica, la difficoltà di accesso ai dati, la possibilità di controllare le scelte della maggioranza solo dopo che sono state prese, riavvolgendo per così dire il nastro. Ne consegue la necessità di un impegno gravoso su più fronti, che non di rado finisce per essere dispersivo e tradursi in una opposizione poco incisiva, con soddisfazione di coloro che, nella stanza dei bottoni, vedono le contestazioni concentrarsi sulle pagliuzze mentre le travi passano indisturbate. Ai cittadini non viene certo un buon servizio. In un Paese come l’ Italia, dove non c’ è l’ abitudine ad essere rigorosi prima di tutto con se stessi, lasciare mano libera a chi ricopre un ruolo di responsabilità significa quasi sempre andare incontro a brutte sorprese.


Mi domando allora perché – soprattutto nei comuni medio-piccoli, dove la buona amministrazione deriva non tanto dalle ideologie quanto da una spesa oculata, da una valorizzazione delle risorse (anche umane) e da una buona pianificazione urbanistica – i rappresentanti delle opposizioni non uniscano i loro talenti e condividano il lavoro, così che ogni provvedimento della maggioranza trovi chi lo scandagli alla luce di una specifica competenza.
I risultati dovrebbero poi essere resi pubblici, offrendo a tutti il massimo di informazione, e quindi lasciati all’ elaborazione e al giudizio politico di ciascun gruppo secondo le proprie idee di riferimento. In tal modo il ‘conoscere per deliberare’ evolverebbe nel ‘conoscere di più per deliberare meglio’.
Potrebbero essere messi a disposizione dei cittadini, magari in rete, dei veri e propri dossier sulle questioni in discussione e ogni delibera troverebbe una contestualizzazione e una lettura alternative a quelle proposte dalla maggioranza. Per quante obiezioni possano venire dai puristi della politica (ma di quale politica?), sono convinto che la vita della comunità ne trarrebbe giovamento e la partecipazione alle vicende della cosa pubblica aumenterebbe.

Silvio Cazzante

mercoledì 15 febbraio 2012

IL MANIFESTO SALVA CICLISTI

Il Manifesto salva ciclisti diffuso da associazioni e blog italiani è stato mutuato dal The Times che ha lanciato una massiccia campagna in difesa dell’incolumità dei ciclisti sulle strade.

Ecco quali sono i suoi punti:

1. Gli autoarticolati che entrano in un centro urbano devono, per legge, essere dotati di sensori, allarmi sonori che segnalino la svolta, specchi supplementari e barre di sicurezza che evitino ai ciclisti di finire sotto le ruote.

2. I 500 incroci più pericolosi del paese devono essere individuati, ripensati e dotati di semafori preferenziali per i ciclisti e di specchi che permettano ai camionisti di vedere eventuali ciclisti presenti sul lato.

3. Dovrà essere condotta un’indagine nazionale per determinare quante persone vanno in bicicletta in Italia e quanti ciclisti vengono uccisi o feriti.

4. Il 2% del budget dell’ANAS dovrà essere destinato alla creazione di piste ciclabili di nuova generazione.

5. La formazione di ciclisti e autisti deve essere migliorata e la sicurezza dei ciclisti deve diventare una parte fondamentale dei test di guida.

6. 30 km/h deve essere il limite di velocità massima nelle aree residenziali sprovviste di piste ciclabili.

7. I privati devono essere invitati a sponsorizzare la creazione di piste ciclabili e superstrade ciclabili prendendo ad esempio lo schema di noleggio bici londinese sponsorizzato dalla Barclays

8. Ogni città deve nominare un commissario alla ciclabilità per promuovere le riforme.

e VOI COSA NE PENSATE?

                                                                                                                 La Redazione

martedì 7 febbraio 2012

ALLARME WWF: "Italia, basta con asfalto e cemento!"


L’inquinamento, la caccia, gli incendi dolosi sono i mali minori contro i quali la natura in Italia si trova a dover fare i conti. Il peggiore? È il consumo di suolo: la copertura di terreni vergini o agricoli con asfalto e cemento per costruire case, industrie, strade o grandi arterie autostradali.

Pochi giorni fa è stato pubblicato il dossier Terra rubata: viaggio nell’Italia che scompare, frutto di una ricerca svolta dall’Università degli studi dell’Aquila e promossa dal Fondo ambiente italiano (Fai) e dal Wwf.
La ricerca, prima nel suo genere, ha riguardato undici regioni che coprono il 44 per cento della superficie italiana: Umbria, Molise, Puglia, Abruzzo, Sardegna, Valle d’Aosta, Lazio, Liguria, Emilia Romagna, Friuli Venezia Giulia Intorno al secondo dopoguerra, queste regioni avevano tassi molto contenuti di densità di urbanizzazione: dall’1 al 4 per cento. Oggi alcune arrivano al 10%.

I NUMERI
Il dossier fotografa la (triste) realtà attraverso numeri che fanno impressione:
l'area urbana in Italia negli ultimi 50 anni si è moltiplicata di 3,5 volte e nei prossimi 20 verrà divorata dal cemento al ritmo di 75 ettari al giorno;
nella sola pianura padana ogni giorno vengono cementificati 19 ettari di campagne fertili;
dal 2000 al 2010 la superficie agricola utilizzata è diminuita del 2,3%, il numero di aziende zootecniche del 32,2%, con il risultato di un territorio più fragile, che ha causato 6.439 vittime tra morti e dispersi per le frane e un rischio desertificazione del territorio stimato intorno al 4,3%.

GLI EFFETTI SUL TERRITORIO
Gli effetti negativi del consumo di suolo si ripercuotono pesantemente su talmente tanti aspetti della vita di ognuno di noi e sulla vita del nostro territorio che diventa impossibile individuare i “limiti” oltre i quali gli effetti del fenomeno risultino non più sostenibili.
Gli aspetti che vengono coinvolti direttamente ed indirettamente dalla conversione urbana dei suoli sono complessivamente i seguenti:

Sfera economico-energetica:
diseconomie dei trasporti,
sperperi energetici,
riduzione delle produzioni agricole.
Sfera idro-geo-pedologica:
destabilizzazione geologica,
irreversibilità d’uso dei suoli,
alterazione degli assetti idraulici ipo- ed epigei.
Sfera fisico-climatica:
accentuazione della riflessione termica e dei cambiamenti climatici,
riduzione della capacità di assorbimento delle emissioni,
effetti sul sequestro del carbonio,
propagazione spaziale dei disturbi fisico-chimici.
Sfera eco-biologica:
erosione fisica e distruzione degli habitat,
frammentazione ecosistemica,
distrofia dei processi eco-biologici,
penalizzazione dei servizi ecosistemici dell’ambiente,
riduzione della «resilienza» ecologica (ovvero la capacità di mantenere un equilibrio complessivo del sistema).

ASSENZA DI PIANIFICAZIONE
L’assenza di pianificazione ha portato un’urbanizzazione a macchia di leopardo che procede costantemente senza essere guidata con alcune leggi vigenti che risalgono al 1942. E se negli insediamenti storici c'è vicinanza tra abitazioni e servizi urbani, in quelli urbani moderni la lontananza genera necessità di infrastrutture e ulteriore consumo di territorio.
Sotto accusa i condoni edilizi del 1985, del 1994 e del 2003 (quattro milioni e mezzo di condoni richiesti) e la legge obiettivo del 2001 che in dieci anni ha fatto salire il numero delle opere previste da 115 a 390 (nel 45 per cento dei casi si tratta di strade), anche se, a oggi, solo l’1 per cento delle infrastrutture previste è stato ultimato.

GUARDANDO CASA NOSTRA, IL VALDARNO
Nonostante la ricerca dell’Università degli studi dell’Aquila non abbia coinvolto direttamente la Toscana, inutile fingere che sia un problema che non ci riguardi.
L’abusivismo sul nostro territorio sarà probabilmente meno spinto che nelle regioni del sud e la pianificazione, forse, più assennata, ma è innegabile come, con una rapidità impressionante, anche il Valdarno sia stato velocemente ingrigito dal cemento.
Dove prima c’erano campi coltivati sono sorti in pochi anni centri commerciali (Zona Ipercoop-Cine8 e Zona Gruccia), nuove aree abitative (negli anni scorsi Pernina, Paperina e la Penna, domani Città giardino) e nuove infrastrutture  (bretella in costruzione tra la Penna - Pernina - Nuova Coop - Città Giardino).

COSA FARE?
Fai e Wwf, nel dossier, propongono una road map. Il primo passo sarebbe una «moratoria delle nuove edificazioni su scala comunale e il censimento degli effetti dell’abusivismo edilizio su scala comunale. Inoltre, dare priorità al riuso dei suoli anche utilizzando la leva fiscale per penalizzare l’uso di nuove risorse territoriali e permettere il cambio di destinazione d’uso di un terreno se coerente con le scelte in materia di ambiente, paesaggio, trasporti e viabilità».
Per quanto riguarda Terranuova invece, visto che è attualmente in atto la revisione del regolamento urbanistico e del piano strutturale, provo io ad avanzare una proposta lanciando così la discussione di questa settimana, quella di aprire il documento che regolerà la pianificazione territoriale del nostro comune con il seguente articolo:

  “ Tenuto conto della necessità di uno sviluppo armonioso del paesaggio e del nostro territorio, per i prossimi 20 anni è fatto divieto assoluto di intaccare terreni vergini o agricoli con asfalto e cemento”.
Dedichiamoci al recupero, alla ristrutturazione, all’ammodernamento e alla riqualificazione  di quello che già c’è.
Sarebbe davvero impensabile cominciare dal “rispetto” del nostro territorio?
 Francesco N.